Il nostro virus quotidiano

Un gesto di solidarietà concreta in favore della San Vincenzo
24 Dicembre 2019
Gli amici di Bottonaga a sostegno della Società S. Vincenzo
1 Luglio 2020

“Se vi viene la febbre restate a casa e chiamate il medico di base!”. Facile no? Certo, basta non essere un senza dimora e basta avere il medico di base, perché se non hai una residenza non te lo puoi nemmeno permettere!
Ecco come con una semplice frase si palesa la condizione in cui vivono tutti gli utenti del mio servizio. Da circa 5 anni infatti lavoro in un dormitorio che ospita 44 uomini e 13 donne senza dimora. Ne abbiamo passati di periodi difficili, ma niente, come questa emergenza sanitaria, ci aveva mai messo di fronte alla nostra inevitabile precarietà. Come servizio dall’inizio dell’emergenza abbiamo deciso senza remore di permettere a tutti gli ospiti di rimanere all’interno, violando il nostro regolamento interno che prevede per alcuni casi l’uscita alle 8 del mattino e il rientro alle 18 la sera, come i classici dormitori. Abbiamo discusso insieme agli ospiti la necessità di limitare le uscite e le passeggiate e abbiamo scoperto interlocutori inizialmente perplessi e arrabbiati, ma subito dopo piacevolmente attenti, comprensivi e collaborativi. Forse perché loro, più di noi operatori, vivono quotidianamente sulla loro pelle le difficoltà, i problemi sono amplificati, le soluzioni scarseggiano, e avere un posto in cui sentirsi il più possibile al sicuro li fa sentire sollevati. Non devono pensare alla giornata che li aspetta, “dove vado a prendere il pranzo? Ci sarà la suora in stazione? Sarà aperta la mensa? E se piove dove vado che hanno chiuso tutto? Non trovi neanche un bagno!”.
In queste settimane, in cui le giornate sono rallentate, le attività sospese, gli incontri con gli assistenti sociali anche, abbiamo riscoperto il valore dello stare insieme, gli ospiti fanno giardinaggio, tengono puliti i loro spazi, leggono, giocano a carte, sentono per primi il crescente bisogno di tutelarsi. Molti di loro hanno alle spalle anni di dipendenze, di carcere, di patologie croniche, e questa reclusione la vivono come una garanzia. Ringraziano, per una volta non pretendono ma sono consapevoli che questa scelta è stata fatta per loro, perché nessuno ce lo ha imposto, è stata una scelta consapevole e condivisa da tutta l’equipe. “Io sono abituato”, scherza C. “ho fatto quasi 20 anni di carcere, cosa vuoi che sia qualche mese chiuso qui dentro!”, invece P., ogni giorno, sempre più spaventato, conta e riconta il numero di morti della giornata e pensa alla sua famiglia troppo lontana per vederla e altrettanto per poterla sentire. Non tutti però hanno qualcuno a cui pensare o di cui preoccuparsi, questo momento li mette a confronto con la loro solitudine più del solito, con i rapporti finiti, i figli che non chiamano, i genitori che non si preoccupano… hanno molto tempo per guardarsi dentro e non c’è la possibilità di fuggire fisicamente, lo puoi fare solo con il pensiero, ma non sempre ci riesce purtroppo. Come ci ricorda D. “a volte però le emozioni, la voglia di smettere di pensare e il passato fanno capolino e vengono a bussare allo stomaco. Però non faccio stupidate perché ho paura di morire, mentre prima era il contrario, non voglio perdere la forza che è in me e non voglio più finire per strada.”. Questa epidemia ci mostra la realtà in tutta la sua crudezza.
E lo fa anche con noi educatori, siamo chiamati a mantenere la calma in un momento in cui vorremmo solo urlare e attivare la nostra tanto decantata capacità di problem solving per fermare tutto questo, ma ancora una volta ci scontriamo con la nostra impotenza e con il fallimento a cui siamo largamente abituati. Abbiamo prolungato i nostri turni per sopperire alla mancanza di volontari che, giustamente, sono rimasti a casa a malincuore, ci siamo attivati per organizzare attività di svago, ci siamo trasformati in pasticcieri e cuochi novelli, e lo facciamo senza farlo pesare agli ospiti, cercando di nascondere la preoccupazione ogni volte che entriamo e quando usciamo dal servizio… “avrò portato dentro qualcosa? Mi porterò a casa qualcosa?”, si perché noi a casa abbiamo figli, compagni, mariti, mogli, fratelli, genitori da tutelare e allora qualsiasi gesto assume un valore nuovo, diverso, più intenso. Ma non è forse così che dovrebbe essere, sempre?

Comments are closed.